Quando i nuovi mercati sono già al nostro “interno” ma vanno guardati di “lato”.
Questo il punto che affronta Gianni Lacorazza, direttore responsabile di Civiltà Appennino e co-founder di Fondazione Appennino, in un contributo al dibattito sulle grandi sfide strategiche del turismo che ha lanciato BTO. Dal macro al micro, una riflessione che guarda all’Italia ma con uno sguardo alle dinamiche global.
È solo una questione di tempo. Un tempo che non sarà neanche molto lontano perché l’attenzione a nuovi scenari e a mercati emergenti è ciclica e strutturalmente si ripropone, inquadrandosi pienamente nel filone delle nuove “grandi sfide del turismo” che Roberta Milano ha lanciato su questo blog.
Per ora non sono molti quelli che si occupano concretamente di aree interne dal punto di vista turistico; sono aree ancora definite “a fallimento di mercato” e quindi poco d’appeal in termini quantitativi. Ritengo, invece, che il dibattito aperto su questi temi possa far diventare un punto di forza ciò che oggi è considerata una debolezza. Per questo è solo una questione di tempo.
Lo scenario è complesso: da un lato, ci sono alcune “paroline magiche” del turismo contemporaneo che aiutano ad accendere i riflettori su aree considerate marginali e, dall’altro, ancora forti limiti interpretativi e programmatici che tendono a focalizzarsi più sulla retorica e sui luoghi comuni che sulla reale lettura di mercato delle nuove opportunità. Termini come “sostenibilità”, “overtourism”, “innovazione”, si prestano perfettamente ad offrire contemporaneamente tanto una lettura positiva in termini di opportunità, quanto il suo rovescio della medaglia, un uso banale, stereotipato e illusorio di questi concetti.
Intanto partiamo dal fatto che le aree interne del Paese sono circa il 60% del territorio; tuttavia, la riflessione non può fermarsi solo alla semplice definizione di aree a bassa densità abitativa lontane dai grandi centri. È necessario non limitarsi al solo aspetto geografico ma guardare anche al lato economico. Va considerato, infatti, un concetto più ampio e profondo degli aggettivi “marginale” e/o “svantaggiato”, perché le aree in cerca di riscatto sono anche di più e ancor più grande è quindi il potenziale di nuovi mercati, specialmente al Sud.
Ci sono, però, alcuni elementi che, in base alla mia esperienza diretta sul campo, vanno via via delineandosi come argini alla semplificazione. Un’esperienza diretta maturata, in particolare, in anni di attività nel marketing territoriale di queste aree e all’interno di una Fondazione che ha il suo core business proprio nella sperimentazione di nuovi modelli di sviluppo sostenibile. Un’attività quotidiana di approfondimento finalizzata a superare quegli ostacoli e criticità consegnati dal tempo alla contemporaneità. Un lavoro che si fonda innanzitutto sullo studio e sulla ricerca, con una collaborazione strutturata che, come Fondazione Appennino, abbiamo avviato con università italiane e con vari istituti del CNR nazionale. Proprio in questo mese di ottobre, ad esempio, abbiamo: ospitato in Valle dell’Agri, l’autumn school del master di II livello “Arìnt” dell’Università Federico II di Napoli, della quale quale siamo partner del comitato scientifico; presenziato a Roma, al CNR nazionale, alla presentazione del volume “Risorse e servizi per la rigenerazione dei territori a bassa densità: gli esiti di un confronto interdisciplinare” che contiene i risultati e le analisi di una settimana di studio nelle aree in cui operiamo.
I dati ci dicono, due cose: da un lato cresce l’attenzione verso i luoghi della decompressione da overtourism; dall’altro questa consapevolezza spesso si trasforma in una troppo elevata e troppo veloce aspettativa di risoluzione dei problemi economici da parte di quei luoghi in cerca di rilancio e che, troppo facilmente, affidano al turismo la ricetta salvifica per il loro futuro. Può capitare che aspettative e risultati ottenuti a volte non coincidano, almeno nei tempi, anche in casi in cui l’investimento pubblico impiega importanti risorse.
Il primo luogo comune è proprio questo: nell’era della comunicazione “democratica”, la possibilità che tutti hanno di poter parlare di sé, porta alla facile illusione che grazie ad un post sui social, o ad un video fatto col drone, il giorno dopo possano arrivare in paese pullman di turisti.
A volte può bastare una PAT (Prodotto Agricolo Tradizionale) che rientra nell’elenco ministeriale a far parlare di “volano di sviluppo per il territorio”! Rimuovendo il fatto che in Italia se ne contano oltre 5mila. Non è un caso isolato, è una pratica diffusa, considerato che (anche qui) le statistiche ci dicono che il 92% delle produzioni agroalimentari certificate viene dai paesi e dai territori con comunità inferiori ai 5mila abitanti (Rapporto sul turismo enogastronomico italiano 2023). Eppure, nonostante le aree interne diano da mangiare al paese, trasformare in flussi turistici è qualcosa di più complesso.
Ancora una volta, dunque, la medaglia delle opportunità potenziali ha il suo rovescio nella semplificazione e nell’illusione. Sia chiaro, comprendo bene l’attrazione verso la comunicazione di una identità finalmente certificata, ma non va intesa come scorciatoia rispetto alla sfida concreta, quella della costruzione di prodotto e offerta. Tra i fattori determinanti pesa l’epoca in cui viviamo, orientata più alla ricerca immediata di visibilità che i media contemporanei permettono, in un ambito economico – il turismo – che regala anche quell’appeal sociale a cui tanti aspirano per vanità. E la vanità, in fondo, sta diventando anche un mercato da frequentare. Inoltre, per chi si occupa di programmazione, strategie territoriali, politiche istituzionali, allocazione di risorse, il fattore tempo è determinate: capisco che si provi ad ottenere risultati da poter comunicare entro un ciclo di programmazione, un mandato, insomma in pochi anni.
Solo che i tempi non sempre collimano e nel turismo la fretta non porta risultati.
Il fattore tempo diventa determinante proprio in quelle aree che vorrebbero trasformarsi in turistiche: nelle località non ancora conosciute e frequentate, infatti, il momento della semina è molto distante da quello della raccolta.
Esiste il rischio concreto di cedere alla strada più veloce con aspirazioni di posizionamento turistico basate su modelli di successo in grandi centri o destinazioni consolidate. Soluzioni “copia/incolla” che spesso non partono da un “perché” ma direttamente da un “come”, replicando investimenti uguali ma in luoghi con caratteristiche diverse.
Altro esempio è legato alla sostenibilità: terreno ormai di dibattito costante che va dalla misurazione alla definizione di strategie di promozione (anche qui ci sono esperimenti fatti sul campo con progetti ad hoc). Ed ancora una volta si ripropongono la medaglia e il suo rovescio: da un lato la naturale vocazione delle aree interne ad essere valvola di sfogo di overtourism e luogo di nuova domanda contemporanea e, dall’altro, il rischio che la sostenibilità si riduca ad essere un riduttivo sinonimo di ambiente pulito, qualità dell’aria o bellezza della natura.
Di fatto, però, se si guarda all’Agenda 2030 dell’Onu, il “turismo sostenibile” è esplicitamente contemplato solo nel GOAL N.8 (“Lavoro dignitoso e crescita economica”) e nel N.12 (“Consumo e produzione responsabili”). Si tratta di indicazioni che vanno inevitabilmente calate nelle singole realtà territoriali e non sempre può essere una buona pratica guardare ad altre realtà, spesso internazionali, per copiarne azioni e riproporle tout court, senza un’attenzione preliminare allo specifico contesto produttivo e di lavoro che queste soluzioni dovrebbe ospitare e far funzionare.
L’esperienza maturata in questi anni, lavorando “dall’interno delle aree interne”, mi ha portato alla consapevolezza che le scorciatoie sono spesso poco fruttuose in luoghi che ambiscono a diventare destinazioni ma che ancora destinazioni non sono. “Superare l’internità”, tema oggetto anche di un saggio scritto a quattro mani con Annalisa Romeo nel gennaio 2024, significa affrontare il tema dei “Luoghi NON comuni”, con un approccio al marketing turistico in maniera laterale e integrata nei contesti locali. Laddove si può; perché questo aspetto è il primo da valutare.
Una lunga riflessione che è anche un’anticipazione del programma di BTO 2024. Questa esperienza diretta verrà, infatti, riportata sul palco e il tema “balance” calza davvero a pennello.
Interverremo, infatti, nel panel “Smart village. La rivoluzione nei borghi”, includendo il dibattito sul rischio di cadere nei luoghi comuni quando si parla di innovazione e tecnologia.
Riflettere su cosa è davvero smart, sul significato più profondo della parola ‘innovazione’, è un passaggio importante per costruire luoghi “non comuni” del turismo futuro. Un futuro forse non troppo lontano. a capacità di donne e uomini del vino di mettere la propria faccia, le proprie emozioni in condivisione con tutti coloro che arriveranno nelle loro aziende.
Gianni Lacorazza interverrà nel panel “Smart village. La rivoluzione nei borghi”, topic Destination.
Contributo a cura di Roberta Milano, coordinatrice della Comunicazione di BTO.
Vi aspettiamo a Firenze il 27 e 28 novembre 2024.